Condividi

Si chiama ClimateFish ed è il primo database open access che fornisce informazioni sulla presenza nel Mar Mediterraneo di 15 specie di pesci considerate come ‘sentinella’ del cambiamento climatico. La ricerca, pubblicata su Frontiers, è stata realizzata dal biologo marino Ernesto Azzurro dell’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del Cnr, in collaborazione con esperti del Centro Ricerche Enea di Santa Teresa (La Spezia) e di altri istituti internazionali.

Nel database figurano sette specie autoctone, selezionate per l’ampia distribuzione, la sensibilità alle condizioni di temperatura e per la facile identificazione, e otto specie esotiche del Mar Rosso. “Grazie a un campionamento durato 13 anni sono stati censiti oltre centomila esemplari delle 15 specie target, in oltre 3mila aree di sette Paesi del bacino del Mediterraneo. Le più rappresentate sono le specie autoctone donzella pavonina e salpa, anche se quest’ultima è andata registrando una diminuzione in quantità e in distribuzione geografica dovuta con tutta probabilità all’aumento delle temperature e alla competizione con erbivori tropicali”, spiega Federica Pannacciulli, responsabile del Laboratorio Enea di Biodiversità e Servizi Ecosistemici. Al momento, le specie esotiche sono ancora sottorappresentate nel database e la loro presenza è concentrata per lo più nel settore orientale del Mediterraneo dove il fenomeno del riscaldamento è particolarmente accelerato, come ad esempio l’area a sud di Creta (+1,65 °C). “Ma il loro numero è destinato a crescere nei prossimi anni a causa dell’aumento della temperatura provocato dai cambiamenti climatici”, aggiunge Pannacciulli.

Con circa 700 specie ittiche e un tasso di riscaldamento circa tre volte più veloce di quello dell’Oceano, il Mediterraneo è un hot-spot sia di biodiversità sia del cambiamento climatico. Negli ultimi decenni parecchie specie si sono spinte verso i poli aumentando il rischio di estinzione, mentre l’arrivo di nuove specie esotiche erbivore come il pesce coniglio sta causando il fenomeno della desertificazione marina. Inoltre, diverse specie hanno ampliato la loro distribuzione geografica nel Mediterraneo: si tratta di un fenomeno, indicato come meridionalizzazione, che coinvolge diverse specie ittiche native, come il pesce pappagallo mediterraneo e la donzella pavonina, individuate verso nord rispetto alla loro originale distribuzione geografica. È stato poi rilevato il fenomeno della tropicalizzazione, vale a dire la presenza di pesci non autoctoni di origine tropicale che si prevede diventino sempre più presenti nel Mediterraneo per effetto del riscaldamento globale (nel 2002 erano 90, di cui 59 dal Mar Rosso, mentre nel 2020 le specie esotiche sono arrivate a 188 di cui 106 provenienti dal Canale di Suez, per un totale di 76 specie stabili).

“Le prime prove dell’espansione verso nord di alcune specie ittiche risalgono agli anni ’90. Il fenomeno è avvenuto un decennio dopo la rilevazione di un netto aumento della temperatura e di importanti cambiamenti nella circolazione dell’acqua nel Mar Mediterraneo”, sottolinea Pannacciulli.

Per conoscere i cambiamenti nell’ecologia marina del Mediterraneo, il team internazionale di ricercatori ha intervistato in 95 località di nove diversi Paesi europei oltre 500 pescatori, di età compresa tra i 28 e gli 87 anni, con più di 10 anni di esperienza individuale e oltre 15mila anni complessivi di osservazione del mare. Agli intervistati è stato chiesto di menzionare la specie che è aumentata in abbondanza o percepita come nuova, cioè mai osservata prima, nelle loro zone di pesca. Complessivamente, gli intervistati hanno menzionato principalmente 75 specie, sia autoctone che esotiche, adattate al caldo. I due terzi delle specie non autoctone rilevate sono stati il pesce palla maculato e il pesce flauto. Tra le specie autoctone maggiormente in espansione verso nord, il pesce serra e il barracuda mediterraneo.

“Queste metodiche innovative ci consentono di monitorare in modo semplice e coordinato alcuni effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi costieri del Mediterraneo. Una delle parole chiave di questo approccio è collaborazione non solo tra istituti di ricerca ma anche tra ricercatori e comunità locali, in particolare pescatori e centri di immersione. Inoltre, l’approccio funziona bene sia a livello locale che per un’intera regione geografica come il bacino del Mediterraneo, considerato oggi un hot-spot del cambiamento climatico”, conclude Ernesto Azzurro dell’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del Cnr. (AdnKronos)

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.